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giovedì 24 luglio 2014

Anteprima: Magisterium. L'Anno di Ferro di Holly Black e Cassandra Clare - Il Prologo e il Primo Capitolo!!!!

Sono tornata tra voi! Mi scuso per l'assenza ma sto digitando dal mare e qua la connessione è decisamente capricciosa! :-(

Proprio qualche giorno fa ho ricevuto una spelndida notizia dalla Mondadori. La serie Magisterium infatti, scritta a quattro mani da due delle autrici che più amo (Cassandra Clare e Holly Black) uscirà in lingua originale il 9 Settembre e noi non dovremmo aspettare un'eternità per vederlo sugli scaffali delle nostre librerie dato che uscirà I PRIMI DI NOVEMBRE!!! *__*

Ma le belle notizie non sono finite!

E' possibile infatti leggere il prologo e il primo capitolo del romanzo: Magisterium. The Iron Trial, da noi tradotto come Magisterium. L'Anno di Ferro!

Vi lascio la cover dell'edizione in lingua originale ^_^


Ed ora ecco a voi il prologo e il primo capitolo!

MAGISTERIUM. L’ANNO DI FERRO

Traduzione di Beatrice Masini

PROLOGO

Da lontano, l’uomo che arrancava su per il fronte bianco del
ghiacciaio poteva somigliare a una formica che zampetta lentamente
sul bordo di un piatto. La baraccopoli di La Rinconada era una
manciata di puntini sparsi molto più giù; il vento aumentava via via
che lui saliva, soffiando sbuffi polverosi di neve sul suo volto e
paralizzando i suoi ricci umidi e neri. Nonostante gli occhiali d’ambra,
il suo volto era contratto in una smorfia per la luminosità del tramonto
riflesso.
L’uomo non aveva paura di cadere, anche se non usava corde o
ancoraggi, solo ramponi e una piccozza. Il suo nome era Alastair Hunt
ed era un mago. Mentre saliva modellava e plasmava la materia gelata
del ghiacciaio . Appigli per mani e piedi comparivano via via che
avanzava a fatica.
Quando raggiunse la caverna, a metà del ghiacciaio, era mezzo
congelato e del tutto sfinito per aver dedicato la propria forza di
volontà a domare il peggiore degli elementi. Praticare la magia così a
lungo gli risucchiava le forze, , ma non aveva osato rallentare.
La caverna si apriva come una bocca nel fianco della montagna.
Impossibile scorgerla (?) da sopra o da sotto. Si issò oltre
l’imboccatura e trasse un profondo respiro rauco, maledicendosi per
non essere arrivato prima, per essersi lasciato ingannare. A La
Rinconada la gente aveva visto l’esplosione e sussurrato
interpretazioni sul suo significato: il fuoco dentro il ghiaccio.
Il fuoco dentro il ghiaccio. Doveva essere un segnale di
emergenza… o un attacco. La caverna era piena di maghi, troppo
vecchi o troppo giovani per combattere, feriti e malati, madri di
bambini molto piccoli che non potevano essere lasciati soli: come sua
moglie e suo figlio. Erano stati nascosti lì, in uno dei luoghi più remoti
della terra.
Magister Rufus aveva insistito: altrimenti sarebbero stati
vulnerabili, ostaggi della sorte, e Alastair si era fidato di lui. Poi,
quando il Nemico della Morte non si era presentato per affrontare la
rappresentante dei maghi (non ricordo se avevamo deciso la lectio
“maghi” o “magi”: io preferirei la prima, meno evangelica), la giovane
Makar sulla quale avevano concentrato tutte le loro speranze, Alastair
aveva compreso il proprio errore. Si era precipitato a La Rinconada
coprendo quasi tutta la distanza a dorso di un animale primitivo d’aria.
Da lì aveva proseguito a piedi, dal momento che il controllo dei
primitivi da parte del Nemico era imprevedibile e saldo. Più saliva,
più la paura aumentava.
Fa’ che stiano tutti bene, ripeté tra sé mentre faceva il suo
ingresso nella caverna. Ti prego, fa’ che stiano tutti bene.
Si sarebbe dovuto sentire il pianto dei bambini. Si sarebbe
dovuto udire il ronzio basso delle conversazioni nervose e il borbottio
della magia controllata. Invece c’era solo l’urlo del vento che
spazzava la cima desolata della montagna. Le pareti della caverna
erano di ghiaccio bianco, macchiato di rosso e bruno dove il sangue
era schizzato e si era raggrumato. Alastair si tolse gli occhiali d’ambra
e li lasciò cadere a terra, poi avanzò, aggrappandosi alle ultime stille
di energia per restare diritto.
Le pareti emettevano un inquietante brillio fosforescente.
Lontano dall’ingresso era la sola luce, e forse per questo inciampò nel
primo corpo e quasi cadde in ginocchio. Si ritrasse con un urlo, poi
trasalì sentendo il proprio grido tornare indietro in forma di eco. La
maga caduta era carbonizzata, irriconoscibile, ma indossava il
braccialetto di pelle con inchiodato il grosso pezzo di rame che la
identificava come una studentessa del secondo anno del (?)
Magisterium. Non poteva aver avuto più di tredici anni.
Ormai dovresti essere abituato alla morte, si disse. Erano in
guerra col Nemico da un decennio che a volte pareva un secolo.
All’inizio era sembrato impossibile cheun solo giovane, seppure un
potente mago Makar, si fosse proposto di sconfiggere la morte in
persona. (nell’originale il concetto restava molto implicito, abbiamo
sciolto un po’) Ma mentre il potere del Nemico cresceva, e il suo
esercito di Creature del Caos aumentava, la minaccia era diventata
sempre più atroce… ed era culminata in quello spietato massacro
degli innocenti.
Alastair si alzò e si spinse più a fondo nella caverna, cercando
disperatamente un volto fra tutti. Si fece strada oltre i corpi di anziani
Magistri del Magisterium e del Collegium, figli di amici e conoscenti,
maghi feriti in battaglie precedenti. Tra loro giacevano i corpi spezzati
delle Creature del Caos, gli occhi turbinosi spenti per sempre. Anche
se i maghi erano stati colti di sorpresa, dovevano aver reagito con
forza per aver ucciso tanti soldati del Nemico. Con l’orrore che gli
rimescolava le viscere, mani e piedi ormai insensibili, Alastair avanzò
barcollando… finché la vide.
Sarah.
La trovò distesa sul fondo della caverna, contro una nebulosa
parete di ghiaccio. Aveva gli occhi aperti, fissi sul nulla. Le iridi erano
torbide e le ciglia incrostate di ghiaccio. Si chinò e le passò le dita
sulla guancia fredda. Inspirò bruscamente, e il suo singhiozzo bucò
l’aria.
Ma dov’era il loro figlio? Dov’era Callum?
Sarah stringeva nella destra un pugnale. Era abilissima nel
plasmare i metalli recuperati dal profondo del suolo. Aveva forgiato
lei quell’arma durante l’ultimo anno di Magisterium. Aveva un nome:
Semiramis. Alastair sapeva che Sarah aveva molto cara quell’arma. Se
devo morire, voglio morire stringendo il mio pugnale, gli diceva
sempre. Ma lui non aveva voluto che morisse.
Sfiorò di nuovo con le dita la guancia gelida.
Un pianto lo fece voltare di scatto. In quella caverna traboccante
di morte e silenzio, un pianto.
Un bambino.
Cercò affannosamente la fonte di quel flebile gemito. Sembrava
arrivare da un punto più vicino all’ingresso. Tornò indietro di corsa,
inciampando sui cadaveri, alcuni rigidi come statue, finché
all’improvviso un altro volto familiare non lo fissò dalla carneficina.
Declan. Il fratello di Sarah, ferito nell’ultima battaglia. Sembrava
essere stato soffocato a morte da una forma particolarmente feroce di
magia d’aria; aveva il volto blu, gli occhi iniettati di sangue. Aveva un
braccio teso, e sotto, protetto dal gelo del suolo da una coperta , c’era
il figlio neonato di Alastair. Mentre lui lo fissava sbigottito, il bimbo
aprì la bocca ed emise un altro debole gemito, quasi un miagolio.
Come in trance, tremante di sollievo, Alastair si chinò a
raccogliere suo figlio. Il bambino lo guardò coi grandi occhi grigi e
aprì la bocca per gridare di nuovo. La coperta cadde, e Alastair capì la
ragione del pianto. La gamba sinistra del bambino penzolava in modo
innaturale, come un ramo spezzato.
Alastair cercò di evocare una magia di terra per curare il
bambino, ma aveva energia appena sufficiente per alleviargli un po’ il
dolore. Col cuore in tumulto (cambiato per questioen di registro),
riavvolse stretto il bimbo nella coperta e tornò nel punto della caverna
dove giaceva Sarah. Tenne il bimbo come se lei potesse vederlo e
s’inginocchiò accanto al corpo di lei.
«Sarah» sussurrò, un nodo di lacrime in gola. «Gli dirò che sei
morta per proteggerlo. Lo crescerò ricordando quanto sei stata
coraggiosa.»
Gli occhi di lei lo fissarono, vuoti e pallidi. Strinse il bimbo più
forte e si protese per sfilarle Semiramis dalla mano. Nel farlo notò che
il ghiaccio accanto alla lama recava strani segni, come se l’avesse
graffiato mentre moriva. Ma i segni erano troppo precisi. Si avvicinò e
vide che erano parole – parole che sua moglie aveva inciso nel
ghiaccio della caverna con le sue ultime forze, morendo.
Le lesse, e fu come ricevere tre colpi secchi nello stomaco.
UCCIDI IL BAMBINO

CAPITOLO UNO

Callum Hunt era una leggenda nella sua piccola città del North
Carolina, ma non in senso buono. Celebre per la sua abilità nello
smontare i supplenti con battute sarcastiche, era specializzato
nell’irritare i direttori, i bidelli e gli inservienti della mensa. Gli
psicologi scolastici, che partivano sempre animati dal desiderio di
aiutarlo (la madre del povero ragazzo era morta, dopotutto), finivano
per sperare che non si presentasse più davanti a loro. Era piuttosto
imbarazzante non riuscire ad avere la risposta pronta per mettere al
suo posto un dodicenne arrabbiato.
Il perenne cipiglio di Call, la chioma nera arruffata e i sospettosi
occhi grigi erano ben noti ai suoi vicini. Amava andare sullo
skateboard, anche se gli ci era voluto un po’ per impadronirsi della
tecnica; diverse auto recavano ancora i segni dei suoi primi tentativi.
Spesso lo si vedeva appostato fuori dalle vetrine del negozio di
fumetti, della sala giochi e del negozio di videogame. Perfino il
sindaco lo conosceva. Difficile dimenticarsi di lui, dopo che il giorno
della Parata del Primo Maggio aveva eluso la sorveglianza del
commesso del locale negozio di animali e rapito una talpa senza pelo
destinata a finire nella pancia di un boa constrictor. Aveva provato
pena per quella creatura cieca e rugosa dall’aria indifesa, e per amor di
giustizia aveva liberato anche tutti i topi bianchi destinati a seguirla
nel menu serale del serpente.
Non si era aspettato che i topi si precipitassero sotto i piedi della
gente che sfilava, ma i topi non sono molto svegli. Non si era aspettato
nemmeno che gli spettatori si dessero alla fuga davanti ai topi, ma
nemmeno la gente è troppo sveglia, come aveva commentato più
tardiil padre di Call. Non era colpa di Call se la parata era stata un
disastro, ma tutti – sindaco in testa – si comportavano come se. In più,
suo padre l’aveva costretto a restituire la talpa senza pelo.
Il padre di Call non approvava il furto.
A suo parere era una cosa spiacevole quasi quanto la magia.
°°°
Callum si dondolò sulla sedia rigida davanti allo studio del
preside, chiedendosi se l’indomani sarebbe tornato a scuola, e se in
caso qualcuno avrebbe sentito la sua mancanza. Ripassò ancora una
volta tutti i modi per farsi bocciare al test dei maghi, e nel mondo più
spettacolare possibile. Suo padre gli aveva elencato più e più volte le
alternative per ottenere la bocciatura: Svuota la mente. Concentrati su
qualcosa che sia il contrario di ciò che vogliono quei mostri. Pensa al
test di un altro invece che al tuo. Call si strofinò il polpaccio, che
quella mattina in classe gli aveva fatto male, ed era indolenzito;
qualche volta gli succedeva. Più cresceva in altezza, più gli doleva.
Almeno la parte fisica del test dei maghi – di qualunque cosa si
trattasse – sarebbe stata facile da sbagliare.
Sentiva in lontananza gli altri ragazzi in palestra, le scarpe da
ginnastica che scricchiolavano sul parquet lucido, le voci fragorose,
gli insulti urlati. Gli sarebbe piaciuto giocare almeno una volta. Forse
non era veloce come gli altri, o altrettanto capace di mantenere
l’equilibrio, ma traboccava di irrefrenabileenergia. Era esonerato da
educazione motoria per via della gamba; anche alle elementari,
quando cercava di correre o saltare o arrampicarsi all’intervallo, uno
dei bidelli si avvicinava per ricordargli che doveva darsi una calmata
prima di farsi male, e che se continuava così l’avrebbero costretto a
rientrare.
Come se qualche livido fosse la cosa più terribile che potesse
succedere. Come se la gamba potesse peggiorare.
Call sospirò e guardò fuori dalle porte a vetro della scuola verso
il punto in cui il padre sarebbe comparso a breve, in auto. Guidava
un’auto del tipo che non passa inosservato, una Rolls-Royce Phantom
del 1937 di colore argento chiaro. Nessun altro in città possedeva
niente del genere. Il padre di Call aveva un negozio di antiquariato
sulla MainStreet che si chiamava “Di Tempo in Tempo”; gli piaceva
recuperare anticaglie e farle tornare nuove e splendenti. Per mantenere
l’auto in perfetta efficienza doveva dedicare quasi tutti i finesettimana
alle riparazioni. E chiedeva sempre a Call di lavarla e di passarvi una
strana cera antiruggine.
La Rolls-Royce funzionava alla perfezione, a differenza di Call.
Si guardò le scarpe da ginnastica tamburellando i piedi contro il
pavimento. Quando portava i jeans, come quel giorno, non si capiva
che la gamba aveva qualcosa che non andava, ma bastava che si
alzasse e camminasse ed era evidente. Era stato sottoposto a
moltissime operazioni fin da piccolissimo, e a terapie di ogni genere:
niente di davvero efficace. Zoppicava ancora come se tentasse di
reggersi in piedi su una barca che beccheggia.
Quando era piccolo giocava spesso a fare il pirata, o il marinaio
coraggioso con una gamba di legno che affondava con la nave dopo
un lungo cannoneggiamento. Giocava ai pirati e ai ninja, ai cowboy e
agli esploratori alieni.
Ma giochi di magia, niente.
Mai.
Sentì il rombo di un motore e fece per alzarsi, ma poi tornò a
sedersi, seccato. Non era l’auto di papà, ma una normalissima Toyota
rossa. Un attimo dopo Kylie Myles, una delle sue compagne di classe,
gli passò davanti correndo, un’insegnante al fianco.
«Buona fortuna per i provini di danza» le disse la signora Kemal,
e si voltò per tornare in classe.
«Sì, grazie» disse Kylie, poi guardò Call in modo strano, come se
lo stesse soppesando. Kylie non guardava mai Call. Era una delle sue
caratteristiche, come i lucidi capelli biondi e lo zaino con l’unicorno.
Quando s’incrociavano in corridoio il suo sguardo gli scivolava
addosso come se fosse invisibile.
Con un mezzo saluto ancora più bizzarro e sorprendente andò
verso la Toyota. Call vide entrambi i genitori di Kylie sui sedili
davanti: avevano l’aria preoccupata.
Non era diretta nello stesso posto, vero? Non poteva essere
diretta alla Prova di Ferro. Ma se invece…
Si puntellò sulla sedia con le mani e si alzò. Se era là che andava,
qualcuno avrebbe dovuto avvertirla.
Tanti ragazzi pensano che sia qualcosa di speciale, aveva detto il
padre di Call, il disgusto evidente nella voce. Anche i loro genitori.
Soprattutto nelle famiglie in cui le capacità magiche risalgono a
parecchie generazioni indietro. E certe famiglie in cui la magia è
quasi estinta vedono in un bambino magico la speranza di tornare al
potere. Ma sono i bambini senza parentele magiche quelli da
compatire più di tutti. Sono quelli che pensano che sarà come nei film.
Non è affatto come nei film.
In quel momento il papà di Call accostò al marciapiede della
scuola in uno stridio di freni, impedendo a Call di vedere Kylie. Call
uscì zoppicando: il tempo di raggiungere la Rolls e la Toyota dei
Myles svoltò e sparì.
Impossibile metterla in guardia.
«Call.» Suo padre era sceso dall’auto e si appoggiava alla
portiera del passeggero. La sua zazzera – lo stesso groviglio nero di
Call – si stava facendo grigia ai lati, e portava una giacca di tweed con
le toppe di pelle, nonostante il caldo. Call era convinto che il padre
somigliasse a Sherlock Holmes nella vecchia serie tv della BBC; a
volte la gente si stupiva che non parlasse con l’accento inglese. «Sei
pronto?»
Call alzò le spalle. Come si fa a essere pronti per qualcosa che
potrebbe sconvolgerti la vita, se va storto? O dritto, nel suo caso.
«Suppongo di sì.»
Il padre aprì la portiera. «Bene. Sali.»
L’interno della Rolls era immacolato come la carrozzeria. Call fu
sorpreso di vedere le vecchie stampelle sul sedile di dietro. Non le
usava da anni, da quando era caduto da una struttura per arrampicarsi
e si era slogato la caviglia – quella del piede buono. Il padre di Call
salì e accese il motore. Call le indicò e disse: «E quelle?»
«Più hai l’aria malandata, più è probabile che ti boccino» disse
cupo il padre, guardandosi indietro mentre uscivano dal parcheggio.
«È un po’ come imbrogliare» osservò Call.
«Call, la gente imbroglia per vincere. Non si può imbrogliare per
perdere».
Call sgranò gli occhi e lasciò che papà pensasse quello che
voleva. Sapeva soltanto che non avrebbe assolutamente usato quelle
stampelle se non era costretto. Ma non voleva parlarne, non nella
stessa giornata in cui il padre aveva carbonizzato il pane tostato a
colazione, cosa insolita, e lo aveva strapazzato quando si era
lamentato di dover andare a scuola per uscirne solo due ore dopo.
Ed eccolo lì, chino sul volante, la mascella serrata, le dita della
mano destra che stringevano la leva del cambio in una morsa e
scalavano le marce con inutile violenza.
Call cercò di concentrarsi sugli alberi che cominciavano a
ingiallire, sforzandosi di ricordare tutto ciò che sapeva del
Magisterium. La prima volta che suo padre aveva parlato dei Magistri
e di come sceglievano gli apprendisti aveva fatto sedere Call in una
delle grandi poltrone di pelle dello studio. Call aveva il gomito
bendato e il labbro spaccato per via di una zuffa a scuola, e non aveva
proprio voglia di ascoltare. E poi il padre era così serio da spaventarlo.
E dal tono che aveva assunto sembrava che dovesse annunciargli che
aveva una malattia terribile. Si scoprì che la malattia era il suo
potenziale magico.
Call si era fatto piccolo piccolo nella poltrona mentre il padre
parlava. Era abituato a sostenere il ruolo della vittima; gli altri ragazzi
erano convinti che per via della gamba fosse un bersaglio facile. Di
solito riusciva a convincerli del contrario. Non quella volta in cui un
gruppo di ragazzi più grandi l’aveva bloccato dietro il capanno vicino
al parco giochi, sulla strada di casa. L’avevano spintonato e aggredito
coi soliti insulti. Callum aveva imparato che molti si facevano indietro
se lui reagiva, così aveva cercato di colpire il ragazzo più alto. Era
stato il suo primo errore. Ben presto l’avevano inchiodato a terra: uno
gli sedeva sulle ginocchia mentre l’altro lo prendeva a pugni in faccia,
cercando di costringerlo a scusarsi e ad ammettere di essere un
pagliaccio storpio.
«Dovete ammettere che sono stupendo, sfigati» aveva sospirato
Call prima di svenire.
Era rimasto privo di sensi per non più di un minuto, perché
quando aveva riaperto gli occhi aveva visto i ragazzi che si
allontanavano. Fuggivano. Call non poteva credere che la sua battuta
si fosse rivelata così efficace.
«Proprio così» aveva detto, mettendosi seduto. «Fate bene a
scappare!»
Poi si era guardato intorno e si era accorto che il cemento del
campo giochi era spaccato. Una lunga fessura correva dalle altalene
fino alla parete del capanno dividendo in due il piccolo edificio.
Era disteso proprio nel bel mezzo di quello che sembrava lo
squarcio provocato da una scossa di terremoto.
La cosa più straordinaria che gli fosse mai successa. Suo padre
non era d’accordo.
«La magia scorre in certe famiglie» disse. «Non tutti i
consanguinei ce l’hanno per forza, ma a quanto pare tu potresti averla.
Purtroppo. Mi dispiace tanto, Call.»
«Ma allora il terremoto…. Stai dicendo che l’ho provocato io?»
Call si era sentito combattuto tra una gioia attonita e un profondo
terrore, ma la gioia era più forte. Sentì gli angoli della bocca
arricciarsi in un sorriso e cercò di tenerli a bada. «È questo che fanno i
maghi?»
«I maghi attingono agli elementi – terra, aria, acqua, fuoco, e
perfino il vuoto, che è la fonte della magia più potente e terribile di
tutte: la magia del caos. Sanno usare la magia per molte cose,
compreso squarciare la terra, come hai fatto tu.» Suo padre aveva
annuito tra sé. «All’inizio, quando la magia si manifesta per la prima
volta, è molto intensa. Potere allo stato grezzo… ciò che educa le arti
magiche è l’equilibrio. Ci vuole molta applicazione per ottenere il
potere di un mago appena destato. I maghi giovani hanno scarso
controllo. Call, tu devi contrastare la magia. Non devi mai più farne
uso. O i maghi ti porteranno via nei loro tunnel.»
«È là che si trova la scuola? Il Magisterium è nel sottosuolo?»
aveva chiesto Call.
«Sepolto sottoterra, dove nessuno può trovarlo» gli aveva detto il
padre, serissimo. «Laggiù non c’è luce. Niente finestre. È un labirinto.
Ci si può perdere nelle caverne, ci si può morire senza che nessuno lo
sappia mai.»
Call si leccò le labbra all’improvviso secche. «Ma tu sei un
mago, vero?»
«Io non uso la magia da quando è morta tua madre. E non la
userò mai più.»
«E la mamma è andata là? Nei tunnel? Sul serio?» Call era avido
di informazioni su sua madre. Non aveva mai saputo molto. Qualche
foto ingiallita in un vecchio album che mostrava una donna graziosa
con i capelli nero inchiostro di Call e gli occhi di un colore
indefinibile. Sapeva che non doveva fare al padre troppe domande su
di lei. Il padre non ne parlava mai se non era costretto.
«Sì, c’è andata» gli disse quella volta. «Ed è per via della magia
che è morta. Quando i maghi vanno in guerra, e succede spesso, non
badano a chi muore per questo. Ed è l’altra ragione per cui non devi
attirare la loro attenzione.»
Quella notte Call si svegliò urlando, convinto di essere
imprigionato nel sottosuolo, con la terra che gli si accumulava
addosso come se lo seppellissero vivo. Per quanto si agitasse, non
riusciva a respirare. Poi sognò che fuggiva da un mostro di fumo con
gli occhi che roteavano in un miscuglio di migliaia di diversi
spaventosi colori… solo che non riusciva a correre abbastanza veloce
per via della gamba. Nei sogni se la trascinava appresso come morta
finché lui cadeva a terra, l’alito bollente del mostro sul collo.
I compagni di classe di Call avevano paura del buio, del mostro
sotto il letto, degli zombie o degli assassini armati di asce giganti. Call
aveva paura dei maghi, e aveva ancora più paura di essere uno di loro.
Ora stava per incontrarli. Gli stessi maghi che erano la ragione
per cui sua madre era morta e suo padre non rideva quasi mai e non
aveva amici, e invece stava chiuso nel laboratorio che aveva ricavato
dal garage e riparava mobili sconquassati, auto e gioielli. Non ci
voleva un genio per capire come mai suo papà aveva l’ossessione di
rimettere in sesto le cose rotte.
Sorpassarono un cartello che dava loro il benvenuto in Virginia.
Era tutto uguale. Non sapeva che cosa aspettarsi, ma di rado era uscito
dal North Carolina. I loro viaggi oltre Asheville erano rari, e le
destinazioni più frequenti erano i mercatini in cui recuperavano vecchi
pezzi di pezzi d’auto e le fiere dell’antiquariato, dove Call vagava tra
cataste di argenteria brunita, collezioni di figurine del baseball nelle
loro custodie di plastica e strane teste di yak imbalsamate, mentre suo
padre contrattava per aggiudicarsi qualcosa di noioso.
A Call venne in mente che se non fosse stato bocciato al test
forse non sarebbe mai più andato di nuovo a uno di quei mercatini. Il
suo stomaco si contrasse e un brivido freddo gli percorse le ossa. Si
costrinse a pensare ai precetti che il padre gli aveva instillato: Svuota
la mente. Concentrati su qualcosa che sia il contrario di ciò che
vogliono quei mostri. Pensa al test di un altro invece che al tuo.
Espirò lentamente. Il nervosismo del padre lo stava contagiando.
Sarebbe andata bene. Era facile sbagliare il test.
L’auto uscì dall’autostrada e imboccò una via stretta. L’unico
cartello presente recava il simbolo di un aeroplano, e sotto c’era
scritto CAMPO VOLO CHIUSO PER LAVORI.
«Dove andiamo?» chiese Call. «Si vola da qualche parte?»
«Speriamo di no» borbottò suo papà. Il fondo stradale era passato
bruscamente dall’asfalto alla terra battuta. Mentre coprivano
sobbalzando qualche altro centinaio di iarde, Call si aggrappò allo
sportello per evitare di battere la testa contro il tetto. Le Rolls-Royce
non sono fatte per le strade sterrate.
All’improvviso la corsia si allargò e gli alberi si separarono. La
Rolls si trovava in un ampio spiazzo sgombro. Nel mezzo c’era un
enorme hangar di acciaio ondulato. Parcheggiate intorno un centinaio
di auto di tutti i generi: dai vecchi pickup malridotti alle berline
eleganti quasi quanto la Phantom, e molto più nuove. Call vide
genitori e ragazzi, tutti più o meno della sua età, correre verso
l’hangar.
«Credo che siamo in ritardo» disse.
«Bene» disse padre con cupa soddisfazione. Fermò l’auto e
scese, accennando a Call di fare lo stesso. Call fu contento di vedere
che il padre sembrava essersi scordato delle stampelle. Era una
giornata calda, e il sole bruciava sul dorso della t-shirt grigia di Call.
Si asciugò i palmi umidi sui jeans mentre attraversavano lo spiazzo
per infilarsi nel grosso buco nero che era l’ingresso dell’hangar.
Dentro era tutto assurdo. Ragazzini ovunque, voci rimbombanti
nel vasto spazio. Lungo una parete di metallo erano disposte delle
gradinate; potevano ospitare molte più persone di quelle presenti, ma
l’immensità del luogo le rendeva lillipuziane. Col nastro adesivo
azzurro vivo erano stati fatti dei segni sul pavimento di cemento, una
serie di X e di cerchi.
Dalla parte opposta rispetto alle gradinate, davanti a una serie di
portoni che un tempo dovevano aprirsi per lasciar uscire gli aerei
lungo le piste, c’erano i maghi.

© 2014 Holly Black e Cassandra Claire LLC
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l’edizione italiana

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